La medicina popolare nell’ambiente appenninico, soprattutto rurale, racchiude un campo che va oltre le singole ricette e pratiche curative, comprendendo l’insieme delle conoscenze e comportamenti messi in atto dalle genti di montagna per salvaguardare la salute propria e dei familiari. Un terreno fertile per credenze che, unite ai saperi pratici dei guaritori, si incrociano con le scienze mediche e con quella rete più estesa e capillare di “operatori” che agivano più sull’animo e sullo spirito che sul fisico, soprattutto in caso di malocchio. Il ricorso al medico e al chirurgo veniva deciso solo se fallivano i rimedi tradizionali; soprattutto per la distanza logistica di questi ma anche per le barriere linguistiche, economiche e culturali.

Dal mondo vegetale veniva la maggior parte dei rimedi, il cui uso veniva spesso tramandato all’interno delle famiglie. Molto diffusa nelle campagne era l’infestazione da vermi intestinali, quindi, quando un bambino cresceva poco o era di aspetto malaticcio, si credeva avesse i vermi e veniva curato con diverse piante, frequentemente con l’aglio. In caso di ferite veniva utilizzata la linfa del gambo del cardo selvatico o la foglia fresca del farfaro, pianta quest’ultima utilizzata anche per la tigna del cuoio capelluto. Altri rimedi naturali usati di frequente erano gli impiastri di semi di lino per curare la tosse, la salvia per il mal di denti e i decotti di camomilla e malva.

Una delle pratiche magico simboliche più usate e antiche era la segnatura, eseguita da un guaritore: essa consisteva nel toccare l’area malata tracciando delle croci. Lo scopo era quello di fermare, bloccare il male dentro i confini segnati, per poi eliminarlo pronunciando magari formule segrete allo scopo di rendere la pratica più efficace. Altro rimedio “miracoloso” era legato all’utilizzo di acque ritenute medicamentose. Per esempio, nei pressi della Lama, era nota la fonte solforosa, denominata popolarmente Bagno della troia (Bagno della scrofa), dove la leggenda voleva che una scrofa malata fosse guarita miracolosamente dopo un “lavaggio” in quell’acqua. Anche la rugiada, caduta la notte di San Giovanni il 24 giugno, potenziava le proprietà curative delle erbe officinali. Proprio la cosiddetta erba di San Giovanni era usata per fare una cintura da avvolgere attorno alla vita contro il mal di schiena.

Anche l’uso di “talismani” era una pratica utilizzata per lo più per tenere lontane le malattie: ne è un esempio la credenza, ancora oggi in uso, di tenere lontano il raffreddore portando in tasca, durante i mesi freddi, una “castagna matta” di ippocastano.