Storicamente i popoli che hanno abitato i due versanti del Parco hanno sempre avuto approcci diversi agli utilizzi del bosco e, di conseguenza, hanno guardato per secoli alla foresta con occhi e mentalità differenti: i toscani erano essenzialmente boscaioli, e vedevano quindi la foresta come fonte di legname; per i contadini romagnoli, invece, i boschi erano più che altro un ostacolo per il pascolo e per l’agricoltura.

L’antropizzazione delle foreste del versante romagnolo per scopi agricoli è durata fino al secolo scorso, con un picco di incremento delle pratiche dannose attorno al 1700: pascolo indiscriminato, incendi, tagli e ronchi. Roncare consisteva nel tagliare e asportare le piante da un tratto di bosco e bruciare le ramaglie sul posto per ricavare terreno da coltivare. Tanta era la fame di terra per ricavare di che sostentarsi che vennero roncati e messi a coltura anche i terreni più impervi, non solo quelli più pianeggianti e accessibili, innescando spesso estesi processi di erosione e dilavamento del terreno non più coperto dalla vegetazione.

La foresta governata a ceduo rappresentava una risorsa soprattutto per il pascolo, il taglio di legna da ardere e la produzione di carbone. Trasformare il legname in carbone permetteva di ridurne drasticamente il peso e il volume, rendendone più agevole il trasporto anche dalle aree più impervie e inaccessibili. Il legname era anche la materia prima dell’artigianato locale: venivano prodotti numerosissimi utensili per l’uso domestico e agricolo lavorando prevalentemente il faggio, l’abete, il castagno, ma anche il ciliegio, la rovere, il tiglio, il frassino e l’olmo.

Paesi a stretto contatto con la foresta, quali ad esempio Badia Prataglia e Moggiona, ma anche Bagno di Romagna e tanti altri piccoli borghi dell’Appennino, si specializzarono nel tempo intorno all’artigianato del legno. A Bagno di Romagna, in particolare, era viva l’arte del tornio che si era caratterizzata per una particolarissima tipologia di manufatti: le corone da rosario. A Moggiona, invece, negli anni ’20 del ‘900 erano presenti ben trenta botteghe di bigonai, che erano gli artigiani che realizzavano contenitori in legno (bigoni) utilizzati per la raccolta dell’uva durante la vendemmia.

Oltre ai taglialegna che si occupavano del taglio dei boschi secondo le regole tramandate da una secolare esperienza, un’altra figura che frequentava il bosco era il vetturino, il conduttore di muli, con i quali recuperava il legname tagliato. Tronchi e rami di diametri diversi, tagliati sul posto nella misura di un metro venivano caricati e trasportati negli “imposti”, luoghi di solito situati ai bordi delle strade dove la legna, ammassata in lunghe cataste, veniva poi recuperata e portata a destinazione.